AVSI all’ONU: verso una nuova narrazione su migranti e rifugiati

Data 26.09.2016
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Leggi l'intervento di Giampaolo Silvestri al side-event “Large movements of refugees and migrants: global challenge, regional responses, comprehensive strategy”.

Esperienze e volti Parto da un affondo nell’esperienza di AVSI che, per il suo profilo specifico, sceglie come criterio primo nella sua azione il “realismo umile”, inteso come adesione alla realtà. Per questo vorrei partire dalle vicende di tre persone che ho potuto incontrare io stesso nei miei viaggi: Cyprian, Sultan e Rita.
1 Cyprian Kaliunga, di un villaggio kenyota afflitto da carestie, epidemie di colera, forte malnutrizione… Grazie al sostegno a distanza di AVSI, Cyprian fonda una scuola per i bambini più poveri, che qui imparano e possono anche mangiare. Grazie alla rete di amici e al microcredito, Cyprian crea un gruppo di 700 famiglie e avvia la più grande latteria del distretto. Padre di 12 figli, ha cambiato il volto del suo villaggio con corsi di alfabetizzazione per adulti, la costruzione di latrine, restauro di capanne e avvio di orti con agricoltura biologica nelle campagne più remote della Contea di Meru. E non è dovuto venire in Occidente per continuare a vivere.
2 Sultan Fawaz Jalloul, siriano, originario di Idlib, da 5 anni vive in una tenda in un campo profughi libanese con la moglie e cinque figli. Grazie a un progetto di cash-for-work, promosso anche dalla Cooperazione italiana in collaborazione con le autorità locali e altri soggetti della società civile libanese, Sultan ha potuto dare il suo contributo alla sistemazione di una foresta del sud del Libano. Un bene per la comunità, per la sua famiglia e un lavoro semplice, condiviso con altri, che gli ha permesso di tornare ad alzarsi in piedi. Ad oggi non è stato (ancora) costretto ad imbarcarsi per attraversare il Mediterraneo rischiando la vita sua e dei suoi figli.
3 Rita viene dalla Repubblica Democratica del Congo, ha trent’anni, è arrivata in Italia nel 2014, vive in una delle strutture di accoglienza. In Congo era parrucchiera, poi dalla Libia si è imbarcata per l’Italia. Rita è una delle persone che hanno aderito al progetto “Cucinare per ricominciare” promosso da Fondazione AVSI in collaborazione con l’impresa Panino Giusto e una cooperativa della Caritas per favorire l’inserimento lavorativo di giovani rifugiati. 15 migranti provenienti da Africa, Medio Oriente e Asia per due mesi hanno seguito lezioni di italiano e lezioni di cucina pratiche e teoriche. Al termine del corso di formazione, quattro di loro sono stati scelti per uno stage nei negozi di Panino Giusto, e per qualcuno si aprirà la prospettiva di un’assunzione. Formazione e lavoro: è la ricetta con cui Fondazione AVSI vuole offrire un contributo per rispondere all’”emergenza” in atto in Italia relativa all’accoglienza dei profughi.
Dalle esperienze impariamo Partire dai volti di queste persone, di provenienza e destinazione diversa, ci permette di accostare la complessità della “questione migrazioni” a partire da tre aspetti fondamentali: 1) il primo aspetto è che in gioco ci sono persone in carne ossa, non solo i numeri delle statistiche. Occorre sempre tornare ai volti veri;
2) il secondo aspetto è che non va mai dimenticato che le migrazioni attraversano e avvicinano i continenti, hanno un percorso lungo e articolato e quindi vanno affrontate secondo quest’ampiezza di orizzonte, lungo tappe diverse: a) nei Paesi di origine, siamo chiamati ad aiutare per come possibile a promuovere iniziative imprenditoriali e di protagonismo locale, che accendano sviluppo dove la miseria morde e farebbe scappare tutti; e innanzitutto sostenere sempre e comunque l’educazione, che è condizione fondamentale non solo per generare possibilità di lavoro, ma anche per garantire una sana convivenza tra persone che possono essere di tribù e religioni diverse; b) nei Paesi di transito: anche qui il perno decisivo è affrontare la sfida educativa in tutto il suo spessore (cioè educare non è solo insegnare a leggere e scrivere) per generazioni di bambini a rischio; e dall’altra creare occasioni di lavoro e quindi di riscatto della propria dignità per gli adulti che ancora sperano che si creino le condizioni per un ritorno a casa; c) nei Paesi di arrivo, come in Europa, siamo chiamati a sostenere progetti di accoglienza di chi arriva per fermarsi e di accompagnamento verso l’autonomia e l’integrazione: scuole, borse di lavoro, formazione al lavoro… Ma questi interventi diversi, qui sintetizzati troppo in breve, vanno pensati insieme, perché si sostengono reciprocamente, come le tessere di un domino: se cade una, cadono tutte.
3) il terzo aspetto infine: non si può neppure pensare di poter affrontare da soli questo grande tema migrants/refugees, ma occorre muoversi in partnership tra ong, realtà locali e vari soggetti della società civile, imprese profit, istituzioni. Le storie raccontate lo mostrano bene. Ci vuole il concorso di tutti i soggetti investiti dal fenomeno migratorio, nessuno può essere scavalcato o fatto fuori. Il prezzo sarebbe quello di finire su un binario morto.
In conclusione Questo “lavoro culturale”, che non significa “intellettuale”, e dà sostanza ad ogni intervento umanitario, ha bisogno di appoggiarsi e fondarsi su relazioni tra persone, non può essere frutto di teorie e analisi. Questa la nostra esperienza dal profondo del Sud Sudan, passando per Erbil e Damasco, per arrivare a Milano: la cura della relazione personale è decisiva. A questo proposito vorrei ricordare una riflessione di Zygmunt Bauman , inizio citazione: «Le radici dell’insicurezza sono molto profonde. Affondano nel nostro modo di vivere, sono segnate dall’indebolimento dei legami interpersonali, dallo sgretolamento delle comunità, dalla sostituzione della solidarietà umana con la competizione senza limiti ». – fine della citazione. Dalla ricostruzione e cura di quei legami interpersonali, ci sembra, potremmo-dovremmo ripartire.