In «Kibera kid» lo si vede ancora adolescente nei panni del cattivo maestro mentre inizia alla malavita il piccolo Otieno, l’orfano protagonista del bellissimo film girato nella più grande baraccopoli kenyana premiato anche a Hollywood nel 2007. Al bambino insegna come aggredire una donna al mercato per sfilarle il cellulare o a dare una lezione a chi osa intralciare l’operato dei Razors, la baby gang di ladri che semina il terrore tra le baracche dello slum. Anthony in questo film interpreta un po’ se stesso, o meglio quello che è stato. Cresciuto senza madre, con un padre alcolizzato, a 5 anni se n’era andato di «casa», ed era diventato un bambino di strada; a 10 era stato «promosso» capo della temuta gang «42 brothers» dal nome dell’«area 42», sobborgo poverissimo di Kibera — il più grande slum del Kenya — al confine con il quartiere ricco di Ayani.
Lo «stratega» della gang
«Dai 5 ai 7 anni sono stato un bambino di strada, poi sono diventato un bad boy», un criminale dice. «Eravamo in 14 , alcuni più grandi di me, ma comandavo io perché i miei piani riuscivano sempre» spiega mentre ci mostra i luoghi della sua precedente vita. La discarica di Fort Jesus dove raccoglieva rifiuti, plastica e ferro, da rivendere nella piazza dei meccanici; il sentiero vicino alla ferrovia dove si appostava per derubare le sue vittime e poi scappare a gambe levate lungo i binari così che nessuno lo rincorresse per paura dei treni; il labirinto di vicoli angusti fiancheggiati da ripari in lamiera ammassati l’uno sull’altro dove viveva e nascondeva le pistole; i posti dove si riforniva di droghe e alcolici. Per «caricarsi» prima di compiere le azioni più efferate e per «stordirsi», per dimenticare e riuscire a prendere sonno «dopo aver derubato donne con bambini». Si riforniva di «moratina», sorta di birra al miele, il «changaa», un distillato quasi letale (non a caso alla lettera significa «uccidimi in fretta»), il «bhang», infuso di cannabis, e sniffava colla e a volte cocaina.
Fino all’obitorio, ma era vivo
Una vita durissima quella in strada: «Ti svegli al mattino e inizi a camminare, speri che qualcuno ti dia qualcosa, sennò rubi: anche gli specchietti dell’auto e le gomme se gli altri ti danno una mano a sollevare il veicolo. Con il ricavato di una gomma sei a posto per una settimana. Vivevamo come una famiglia: chi veniva preso non diceva niente».
Ma un giorno qualcosa andò storto e Anthony si è ritrovato faccia a faccia con la morte: «Io e i miei 5 migliori amici ci eravamo appostati qui fuori con un’auto rubata, in attesa che uscisse una signora per rapinarla, non avevamo calcolato che il veicolo aveva il localizzatore, così siamo stati rintracciati dalla polizia. Sono arrivati i flying squad (unità speciale della polizia molto temuta per la sua brutalità, ndr) e hanno sparato, io sono stato colpito soltanto a una gamba ma i miei amici ovunque, il sangue era dappertutto. Ci hanno dichiarato morti e siamo stati portati all’obitorio. Pensavano fossi morto pure io. Con il fresco che c’era lì mi sono riavuto e alzato, gli addetti hanno pensato che fossi risorto, sono scappati dalla paura, hanno chiamato la polizia. Mi hanno portato in ospedale e mi hanno incatenato»
L’evasione del sopravvissuto
Strategico e rocambolesco il suo piano di evasione: «Dopo settimane ho aspettato che la guardia uscisse per fumare e con una forcina dei capelli ho aperto le manette e sono uscito. Mi sono nascosto e ho aspettato che aprissero i cancelli per far passare i cadaveri, così finalmente sono riuscito a scappare ed essere un uomo libero. Questo è il posto dove ho perso i miei più cari amici. Sono stato l’unico a sopravvivere, forse per raccontare questa storia».
Si commuove. Anthony. E come per Otieno, il protagonista di «Kibera Kid» un furto andato male diventa l’occasione per scegliere tra la vita da gangster e la «redenzione». In realtà a quell’epoca Anthony era già stato agganciato da una cooperante locale di Avsi. Rosalie, questo il suo nome, gli aveva proposto una buona scuola e un tetto, quello di casa sua. Lui aveva accettato e aveva finito per chiamarla mamma. Così all’alba degli 11 anni si è ritrovato in prima elementare.
Salvato da Rosalie
I ragazzini sterminati nel blitz delle forze speciali erano in classe con lui. Lo conferma Anthony Maina, il preside della loro scuola, la Little Prince. «Non ho cambiato vita subito, non si può lasciare la strada dall’oggi al domani. Prima commettevo un crimine al giorno, poi una volta ogni tanto: se smetti di colpo ti uccidono. Ho continuato fino a 13 anni a delinquere. Rosalie è stata paziente con me e la sua pazienza mi ha salvato» riconosce oggi Anthony.
«Sono stata con lei fino alla fine delle medie, poi se n’è andata, veniva a trovarmi ogni tanto, per me quello è stato un periodo duro, il richiamo della strada è stato forte. Al suo posto è arrivato un uomo, Kamanbe, ma io mi sono sentito abbandonato di nuovo».
Anthony è riuscito ad andare avanti e, sempre sponsorizzato da Avsi, ha frequentato una delle migliori scuole superiori in Kenya, la Cardinal Otunga. «Volevo diventare un insegnante, così finiti gli studi ho fatto uno stage in una scuola. Poi mi hanno assunto».
La nuova vita
E ora eccolo qui, a 29 anni, in classe con i bambini, che stravedono per lui in un asilo di Nairobi. Coinvolge i piccoli in mille attività: a vederlo in azione non appare traccia del suo passato burrascoso. «Eppure il passato mi insegue, è un carico pesante da portare, non mi posso assolvere per quello che ho fatto — dice — Ma io qui non faccio finta di essere quello che non sono, piuttosto mi appago di ogni loro piccola conquista e delle loro scoperte. Non dico fate questo o quest’altro, ma disegno e cucino insieme a loro. Con loro è come se recuperassi l’infanzia che mi sono perso».