Sempre contesa da due estremismi, i pessimisti da una parte e gli euforici dall’altra, quelli del “non ce la farà mai” e quelli di “è la terra promessa”, l’Africa ci chiama. Noi europei restiamo sempre totalmente altro da questo continente disomogeneo, ma ciò non ci esime, anzi, dal dovere di lavorare con questo “partner”. Così chiede di essere considerata l’Africa attraverso la voce dei suoi governanti, ma anche dei più vulnerabili: non vogliono nuovi coloni digitali, finanziari o caritatevoli, ma collaboratori. Per questo abbiamo lanciato qualche mese fa la proposta di un Piano Marshall per e con l’Africa. Il nome è ambizioso, forse pure usurato, ma ancora adeguato a evocare l’idea di una grande azione condivisa, capace di impatto positivo.
L’essenziale sta qui: è il momento giusto per avviare un processo originale e irreversibile di sviluppo dell’Africa, mettendo in rete soggetti diversi, consapevoli che le risorse e gli strumenti ci sono e che serve un approccio radicalmente nuovo.
Per quanto riguarda i fondi italiani all’aiuto allo sviluppo, è stato mantenuto per il 2019 più o meno l’impegno assunto dai governi precedenti, cioè circa 5 miliardi. Manca l’aumento progressivo che era già previsto per gli anni futuri, ma una quota di questi, prima destinata al capitolo accoglienza dei migranti (500 milioni circa) potrebbe essere utilizzata per interventi nei Paesi.
Sono tanti? Sono pochi? La verità è che i soldi non sono mai la condizione sufficiente a garantire sviluppo e che i fondi pubblici vanno concepiti e usati come una leva che può e deve attrarre o valorizzare altri investimenti. Come quelli delle imprese o le rimesse degli emigrati per esempio: una risorsa dalle alte potenzialità, ancora poco indagata, che forme di detassazione potrebbero rendere ancor più volano di sviluppo. Quanto agli strumenti l’Italia deve “solo” decidersi ad arrivare fino in fondo alle promesse della legge sulla cooperazione varata nel 2014, quindi rafforzare l’Agenzia della Cooperazione allo Sviluppo, favorire l’azione mirata della cooperazione delegata per arrivare ai fondi Ue, avviare il processo di evoluzione della Cassa Depositi e Prestiti in Banca di Sviluppo, così che possa accedere all’European Investment Plan.
Se fondi e strumenti ci sono, da quali Paesi cominciare? Da che cosa? In che tempi? Per provare a rispondere facciamo ricorso al sano criterio del realismo e dell’esperienza: il Piano potrebbe essere avviato dove l’Italia è già presente e nei luoghi da cui partono i migranti che arrivano qui; proviamo quindi a cominciare da Etiopia, Kenya, Mozambico, Uganda, Nigeria, Costa D’Avorio, Niger.
Per il contenuto del piano, occorre misurarsi con i bisogni effettivi, che si auto-impongono: il bisogno di una classe dirigente e di infrastrutture innanzitutto.
Lo sviluppo viaggia su strade, ferrovie, aeroporti e diventa sostenibile se c’è una classe dirigente capace di governarlo, vigilando sull’uso delle risorse, intelligente nella programmazione di lungo periodo. Una classe che si può formare solo in scuole e università che offrano un’educazione di qualità: irrinunciabile l’obiettivo di molti governi di garantire la free education, a patto che non sia un gioco al ribasso. Non occorre qui arrampicarsi su tabelle e statistiche per spiegare cosa intendiamo per educazione di qualità, basta pensare a quella che vorremmo per i nostri figli. Il bisogno di infrastrutture, invece, apre la porta al settore privato: è la vasta prateria (sbandierata dagli euforici, ma reale) per le imprese che trovano il coraggio di investire secondo quanto detterebbe il Dna dell’imprenditore autentico. I settori chiave sono due: agricoltura ed energia. Qui vanno dirottati anche i finanziamenti della formazione professionale, possiamo sospendere i corsi di taglio e cucito. Ma anche in questo caso la riuscita è determinata dalla disponibilità a progettare e impegnarsi a lungo termine. Se la Cina fa paura all’Europa è perché fa strade e ponti alla velocità della luce e a prezzi competitivi. Ma forse anche perché non ha paura del tempo: imposta piani che scavalcano le durate medie dei governi europei e sul lungo periodo ottimizza le sue risorse. Certo il prezzo che paga in termini di rispetto dei diritti umani è troppo alto, non lo possiamo accettare; ma questa da obiezione può divenire spinta a una collaborazione sensata, da giocare su piani nuovi. L’Europa sa che da sola non va da nessuna parte.
Qui, in questo terreno, si colloca il lavoro delle ong e delle organizzazioni della società civile: aprire nessi, costruire partnership aderenti al bisogno locale, ma aperte all’orizzonte globale. Finito il tempo di progetti piccoli, a rischio di paternalismo, ci attende l’avventura di azioni integrate: con le imprese e le multinazionali che non sono più il nemico da boicottare, ma potenziali collaboratori a condizioni nuove; con i soggetti che vivono di economia informale, che tiene in piedi società intere e va accompagnata a evolvere, non rimossa; con le istituzioni locali e internazionali in relazioni fondate su affidabilità, trasparenza e competenza.
Parlare di un Piano Marshall per e con l’Africa potrebbe attirarci l’accusa di essere un filo megalomani. Ma, mantenendo i piedi ben piantati nel terreno, questo rischio lo vogliamo correre perché i sentieri noti non ci stanno portando da nessuna parte e ne vorremmo tracciare insieme di nuovi.