Accoglienza e sicurezza non sono una contraddizione

Data 24.07.2017

A Milano il metrò a una cert'ora parla arabo. In altre parla cinese e swahili. Gli angoli di alcune piazze parlano spagnolo, e alcune panchine le lingue dell'Europa dell'Est. Eppure è e resta Milano, la città che entra presto nelle vene di chi ci passa o la abita anche solo part-time. Perché è viva e come ogni cosa viva non si può imbrigliare, il suo dinamismo la rende inafferrabile. Iltema del suo incontro con il numero crescente dei migranti che qui arrivano o di qui passano ne è una conferma: gli strumenti che la città ha in mano, norme e regolamenti, non sembrano sufficienti a governare questo cambiamento in corso giorno dopo giorno, inesorabile.

Ci manca qualcosa. Al fondo di ogni notizia di cronaca c'è una tensione che viene confusa per una contrapposizione (così è sembrato emergere in alcune dichiarazioni di giovedi sera alla festa del Pd ) . La tensione tra la richiesta di accoglienza, quindi di integrazione, da una parte, e il bisogno di sicurezza, dall'altra. Ma appunto è una tensione, non una contrapposizione. La tensione tra due poli in sé ha una forza generativa: di energia, di proposte e di buone pratiche. Genera il movimento di persone che si mettono insieme e provano a percorrere sentieri nuovi. Senza lasciare che la paura tagli le gambe proprio quando invece c'è bisogno di mettere giù un passo dopo l'altro e camminare spediti. Pensare i due aspetti come contrapposti e contradditori, invece, conduce a considerare il rapporto tra noi e i migranti - ormai una relazione quotidiana con cui fare i conti - a blocchi.

Ora ci dobbiamo occupare di controllare gli ingressi, espellere gli "illegali" ( missione quasi impossibile ), presidiare i nostri confini, provare ad allargarli fino all'Africa dove rinforzare eserciti e polizia per contenere l'urto di chi si mette in viaggio... E poi, solo dopo, penseremo al resto. Il punto è che il "resto" è già qui. Era straniero, ma adesso abita sul nostro pianerottolo. Solo che non sappiamo come guardarlo e chiamarlo. Si sta inceppando qualcosa nelle nostre città che nella loro nuova composizione ci stanno chiedendo di rivedere certe leggi e certe definizioni. I dati globali delle migrazioni, incrociati con quelli dei tassi di natalità dei Paesi africani, e con i trend di sviluppo e di disuguaglianze, ci aprono la testa sul fatto che non stiamo vivendo una fase di emergenza, ma che la misura di questo movimento di popolo ci terrà compagnia per lunghi anni.

Ha dell'inedito e in modo inedito va governato. Su tanti piani, in contemporanea. Avviare partnership con i Paesi di origine delle migrazioni, coinvolgendo imprese, società civilee orgaruzzaziom non governative, quindi intervenire per promuovere lo sviluppo là, è in realtà un vero e proprio investimento in termini di sicurezza qui. Il lavoro delle forze dell'ordine, la risposta a chi giustamente chiede di poter passeggiare per il suo quartiere all'imbrunire senza la paura di essere aggredito vanno insieme a interventi lungo tutto il tracciato delle migrazioni: qui, nelle terre di transito, all'origine. Allora quando l'orizzonte si allarga, ogni pezzo del problema torna ad assumere proporzioni affrontabili. Certo se nessuno di noi, protagonisti di punta di questa pagina di storia, si chiama fuori.