9 anni di guerra in Siria. “È una tragedia che interpella tutti noi”

Data 15.03.2020

Non è mai bastato quello che abbiamo fatto in questi lunghi 9 anni e ora basta ancora meno: da un punto di vista dell’aiuto umanitario è questa la triste realtà con la quale oggi ricordiamo l’inizio della guerra in Siria il 15 marzo 2011.

È una tragedia che interpella tutti noi, dalla piccola ONG italiana ai grandi potenti della terra: cosa ci dicono milioni di persone rifugiate in Paesi che li accolgono a malincuore o centinaia di migliaia di bambini nati fuori dal loro Paese sovente senza identità giuridica e sempre senza sapere da dove vengono?

Questo 15 marzo in Medio Oriente arriva con l’aggiunta del covid-19, con i missili che ammazzano a Idlib, con le prepotenze turche che usano la disperazione dei rifugiati come merce di contrattazione con l'Unione Europea, con la crisi economica libanese che aggiungerà poveri ai già 900.000 disperati che da anni sono scappati dalla Siria e oggi vivono tra rancori, coprifuochi e invettive di chi li vede come i competitor nella disperazione.

Per fortuna qualche bella storia da raccontare c’è, altrimenti noi che pretendiamo di aiutarli dovremmo cambiare lavoro; penso al porporato Mario Zenari, Nunzio Apostolico a Damasco che ogni settimana aggiorna sulla sua agenda il numero di malati curati gratuitamente dal progetto Ospedali Aperti che AVSI gestisce: ad oggi sono più di 35.000 i visi sui quali un sorriso è rispuntato. C’è anche la storia di Fatma, 26 anni, scappata dall’Iraq e dall’ISIS e accampatasi a Gwera, un piccolo villaggio giordano più famoso per essere un centro strategico per lo spaccio di droga che per le dune di sabbia del deserto che lo circonda: lei tra l’età anagrafica che la taccia di essere in ritardo per il matrimonio e la sua voglia di esprimere quello che è al di là dei pregiudizi, inizia a imparare l’ancestrale tecnica del mosaico e dalle sue mani orientali escono paesaggi bellissimi e uccelli variopinti che Franco, maestro restauratore italiano imprestato all’Oriente, definisce “un risultato tecnicamente e artisticamente straordinario dentro al quale si legge la sua voglia di vivere”. Fatma è giustamente fiera del lavoro e il suo sorriso nascosto dal velo nero lo sprigiona guardandoti con gli occhioni che si illuminano e dice: “Con AVSI ho imparato a fare una cosa importante per il mio futuro, adesso devo capire dove utilizzare questa mia competenza: mi piacerebbe in Iraq, sicuramente non in mezzo a questo deserto, molto più probabilmente in Europa o in Australia”.

Houda invece è Yazida, una identità che è una garanzia: hanno lottato contro Daesh, sono morti, sono stati abbandonati ancor più dei curdi e sono una minoranza delle minoranze. Lei produce substrato per la produzione di funghi e lo ha sempre fatto per un utilizzo famigliare: oggi come AVSI stiamo tentando di farle fare il salto di scala perché abbiamo bisogno di tonnellate di prodotto da dare ad altre centinaia di donne yazide affinché coltivino e guadagnino qualche soldo per campare meglio. Houda non ha neanche più il tempo di parlare con le persone accanto lei “perché’ questa è la mia occasione per poter aver un lavoro che mi permetterà di essere autonoma e guardare al futuro con qualche speranza in più”.

Storie belle quelle di Fatma e Houda, storie di successo e di rinascita che però contrastano con i numeri della tragedia siriana che non finiscono di crescere per negatività: dobbiamo conoscerle e apprezzarle, ma non possiamo fermarci perché dopo 9 anni di guerra l’uscita dal tunnel non si vede ancora e saremo tutti insieme responsabili se al prossimo compleanno saremo ancora obbligati a raccontare di Siria.

#iorestoacasa è un hashtag che milioni di siriani non possono scrivere in questo momento, sarebbe bello se da domani potessero lanciare e far diventare virale #iotornoacasa: dipende anche da noi.